195

Siamo solo frammenti del nostro ego.

E. Pecora

(Elio Pecora, da Simmetrie)

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Flusso #1

Voragine. Che mangia tutto. Inghiotte le mie chiome. Le mie frustrazioni. Turbine di vento che spazza via tutto. Spezza le braccia a cui posso aggrapparmi. Un enorme buco nero. Che attira a sé i vortici della mia testa e le emozioni non sono libere di crescere. Nella mia testa. Un’enorme voragine. Ogni carezza si dissolve in anelli di fumo che l’aria rapisce. Vento forte. Tempeste che devastano i prati in cui pascolano i miei pensieri. E tutto ciò che era concreto diventa silenzio. Il disordine si espande e produce muffa. Nella voragine cado anch’io, trascinata dalla privazione. Senza più avere braccia con cui aggrapparmi. Gli orli del buco si allargano e le mie ossa si confondono. Strage di situazioni tangibili. Tutto fumo. Che si eleva, tende verso l’alto, mentre la mia testa pesa in basso. Trascina il mio corpo. Mostri di ossa, verdi di muffa. La scia di parole che lascio, volevo che fosse viscosa come la scia della lumaca. Invece è olio che si espande, si divide in padella. Cuocerò due uova, vita che sarebbe potuta essere. Mulinelli che nascondono. Rapiscono le gracili emozioni, come le foglie di un salice che piange. Che piange foglie in un fiume di lacrime sgorgate in alta montagna. La fonte è segreta. Come segreto è il dolore che porto a passeggio. Privazione. Una voragine in cui sono caduta inciampando su una scogliera. Mi sono buttata. E con le unghie nella terra provo a risalire, a raggiungere ciò che fugge. Ciò che era intrappolato, ora è fuggito. È stato liberato. Un canarino. Che si nasconde tra la fauci del gatto. La mia emotività nell’antro del ciclope. Terzo occhio e unghie sporche. Una pioggia di leggera fuliggine dopo il rogo della tempesta. Dall’acqua al fuoco. Senza che nulla sia risorto. Senza che nulla sia cambiato. Ho perso la mia valigetta di documenti e sentimenti. Carte che svolazzano. Dollari gettati da un aereo. Che è impossibile recuperare. Vortici e mulinelli dall’alto delle nuvole. Strapiombo. Ma un ombrello aperto che favorisce l’atterraggio e la dispersione. La gente si affolla a raccattarne il più possibile. E la mia memoria si espande. Ma si divide. Si spezza. La gente che mi tocca e sprofonda nel buco nero. Con me. Colla. Viscosa come la scia di un vecchio lumacone. Che non riattacca il mio senso del sentire. Mi appiccica e mi lega. Il mosaico non si ricompone. Schegge di vetro grezzo in ogni direzione. Voragine. Proprio al centro della città. Che mangia tutto. Che inghiotte le chiome degli alberi. Lungo le vie principali. Mulinelli di foglie. Salici che piangono. S’incurvano come archi. Si piegano gementi come le vecchie al tabernacolo. E il buco nero mangia anche il sacerdote. Nemmeno più le ossa nel sacrario. Verde muffa. Polvere che vive. Ascensione. S’infrangono i vetri del rosone, in ogni direzione. Taglienti. Risucchiati nel vortice che non ne duole. Che porta la sua devastazione. Che nasce dalla testa di uno spillo. Zampillava come una fontana. Fonte del fiume. Fonte dell’inondazione. Dal fuoco all’acqua. Tutto tace. Solo il silenzio parla ancora. Discorre con gli anelli di fumo. Che aspergono fuliggine. Le lumache si sono asfissiate. Io tossisco ancora. Cuocerò due uova. Al freddo e al gelo del mio vuoto di senso.

M. Mari

 

 

(Michele Mari, da Cento poesie d’amore a Ladyhawke)

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Umanità

 

Ci turba il percepire la presenza

di imprevisti risvolti d’orlo

che di minuscoli macigni

empiamo, camminando assorti

sui viali sterrati dell’esistenza.

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